Rafi Pitts (1967) è uno dei tanti cineasti iraniani costretti all’esilio. Il suo è un caso particolare, poiché suo padre è inglese e lui è andato via dal paese all’epoca della guerra con l’Iraq (1980 – 1988). Tuttavia, la sua condizione può essere affiancata a quelli degli autori (Moshen Makhmalbaf, Abbas Kiarostami) costretti ad andare all’estero per lavorare o a chi, come Jafar Panahi, ha subito una sentenza che lo diffida dal fare film o rilasciare interviste per i prossimi venti anni. Nel caso specifico ci troviamo davanti a un cineasta che cerca di tenere unite storie drammatiche e uno sguardo lucido sulla società. Anche se lui ha dichiarato di essere più interessato alle condizioni degli uomini che a quello che fanno i governanti, il suo lavoro – da Fasl-e panjom (La quinta stagione, 1997), a Sanam (2000) – mostra una forte attenzione alla società in cui sono immersi i personaggi. La conferma viene The Hunter (Il cacciatore, in originale Shekarchi). Alì, interprete lo stesso regista, è appena uscito dalla prigione, dove ha scontato una pena per un crimine – comune? politico? – di cui non sappiamo nulla. Ora vuole solo vivere in pace con moglie e figlia e coltivare la passione per la caccia. A fatica trova un lavoro da guardiano notturno in una fabbrica. Tutto sembra andare per il meglio quando la donna e la ragazzina, un giorno, non ritornano più a casa. Dopo molte ricerche e insistenze scopre che sono state uccise dalla polizia nel corso di uno scontro con manifestanti antigovernativi. Lacerato e furioso impugna il fucile e ammazza due agenti. Fugge, ma presto due poliziotti lo catturano, Il terzetto si perde in un bosco e la cosa fa esplodere i conflitti fra i due agenti: uno vorrebbe uccidere subito il prigioniero, l’atro reclama il diritto a un processo regolare. I contrasti si arricchiscono di minacce e scontri sino a un tragico finale. E’ il primo film iraniano in cui si parla apertamente delle violenze della polizia e delle gravi offese alla libertà di manifestazione perpetrate dal regime di Mahmud Ahmadinejad. A questo primo dato positivo si aggiunge una costruzione narrativa che, nonostante alcuni salti logici (è possibile che a un ex – detenuto sia rilasciato il porto d’armi?) offre un quadro drammatico e lucido di un paese preda di una feroce dittatura clericale.
(umberto@uerre.it)