Josè Mourinho ripercorre la sua esperienza all’Inter. Il tecnico portoghese ha parlato in una lunga intervista rilasciata alla Gazzetta dello Sport, queste le sue parole.
INTER – «Il meglio in carriera l’ho dato dove ero a casa, dove sentivo le emozioni del mio gruppo, dove sono stato al duecento per cento con il mio cuore: più una persona che un allenatore. Per questo a Madrid ero più felice di vivere la felicità degli altri – da Moratti all’ultimo dei magazzinieri – della mia stessa felicità: io una Champions l’avevo già vinta. Mi è capitato di pensare prima a me che agli altri: all’Inter, mai. Questo succede in una famiglia: quando diventi padre, capisci che c’è qualcuno più importate di te, e passi al secondo posto».
SCONFITTA A BERGAMO – «Dopo la sconfitta di Bergamo (3-1, gennaio 2009). Fui molto violento con i giocatori, solo dopo avergli detto che avevano vinto scudetti di merda e basta capii che li avevo feriti, perché solo dopo capii le cose che erano successe prima. E mi scusai».
TRE FINALI – «Quella di Coppa Italia non la volevo giocare: l’inno della Roma prima della partita, arrivai a provocare “Fermate la musica o ce ne andiamo”. A Siena avevo paura: sei giorni dopo c’era la grande finale, temevo non giocassero quella partita come una finale. Zero a zero al 45’, la Roma vinceva 2-0, nello spogliatoio un caldo tremendo, non capivo come aiutare la squadra a svoltare tatticamente. Fu molto dura, e non finiva più. Avevo detto: “Un giorno mi piacerebbe vincere un campionato all’ultima”. Quel giorno mi dissi: “Mai più”».
IBRAHIMOVIC ETO’O – «Il casino successe prima, a Pasadena, il giorno dell’amichevole contro il Chelsea. Tormentone da giorni: “Ibra va al Barcellona, non va al Barcellona”, lui da super professionista quale è giocò 45’, ma poi nello spogliatoio disse: “Vado, devo vincere la Champions”. I miei assistenti italiani erano morti – “Senza di lui sarà impossibile vincere” – i compagni non volevano perderlo. Ero preoccupato anche io, ma mi uscì così: “Magari tu vai e la vinciamo noi”. Ero stato un po’ pazzo, ma nello spogliatoio cambiò l’atmosfera. Poi dissi a Branca: “Se lui vuole andare a Barcellona, cerchiamo di prendere Eto’o”. Lui e Milito tatticamente potevano dare una diversità alla squadra».
SNEIJDER – «A un certo punto non ci speravo più, ma la prima opzione era lui e Branca mi disse: “Non mollare, facciamo insieme pressione su Moratti”. Da quel giorno chiamai Moratti tutti i giorni: “Serve Wes, Wes, Wes».
DERBY DA TITOLARE – «Sfinii il team manager Andrea Butti, l’uomo che fa succedere l’impossibile: “Il transfer: deve giocare”. Poi andai da Wes: “Giocheresti?”. Nei suoi occhi non vidi sorpresa o paura: “Gioco, e quando sono stanco esco”. “Questo ha le palle, è uno di noi”, mi dissi. La domenica derby, 4-0, storia».
GUARDIOLA IN BARCELLONA-INTER – «Quando Busquets cadde quasi tramortito io ero in diagonale fra la nostra panchina, la loro e il punto dove Thiago Motta venne espulso. Con la coda dell’occhio vedo la panchina del Barcellona che festeggia come se avessero già vinto, Guardiola che chiama Ibra per parlare di tattica: tattica in 11 contro 10… Gli dissi solo: “Non fare festa, questa partita non è finita”».
REAL MADRID – «Perchè non sono tornato a Milano con la squadra? Perché se fossi tornato, con la squadra intorno e i tifosi che avrebbero cantato “José resta con noi”, forse non sarei più andato via. Io non avevo già firmato con il Real prima della finale: chi ha detto che qualcuno del Real venne nel nostro hotel prima della finale disse una cazzata. Prima della finale successe solo che scoprii lo scatolone con le maglie celebrative e scappai per non vederle. Io volevo andare al Real: mi voleva già l’anno prima, andai a casa di Moratti a dirglielo e lui mi fermò, “Non andare”. Al Real avevo già detto no quando ero al Chelsea, al Real non puoi dire no tre volte. Oggi forse potrei stare 4-5-6 anni nello stesso club, ma allora volevo essere il primo -e sono ancora l’unico, fra gli allenatori – ad aver vinto il titolo nazionale in Inghilterra, Italia e Spagna. Allora mi dissi: “Sto qui due giorni, firmo il contratto e vado a Milano quando non posso più tornare indietro”».
ADDIO INTER – «Avevo deciso dopo la seconda semifinale con il Barcellona, perché sapevo che avrei vinto la Champions. Moratti l’avevo preparato: senza bisogno di parole, la temperatura del nostro abbraccio in campo gli fece capire cosa volevo. Mi disse: “Dopo questo, hai il diritto di andare”. Era il diritto di fare quello che volevo, non di essere felice: e infatti sono stato più felice a Milano che a Madrid».
RUMORE DEI NEMICI – «Cento per cento ambizione. Il rumore dei nemici, che poi piangevano, era bellissimo: era più forte il tremore del rumore, e se ci pensa bene è la stessa cosa: quando c’è rumore è perché c’è paura».
TORNARE ALL’INTER – «Lo so perché mi sta facendo questa domanda. Ma io non sono pirla…».