Salta il castello di carte, si rimescola il mazzo. Gli amici apparentemente inseparabili tornano acerrimi nemici, e viceversa. Ma alcune incoerenze si perdonano.
La politica italiana della millantata Terza Repubblica somiglia al gioco del domino. Non importa come giri e rigiri le tessere, l’importante è che il serpente vada avanti. Il governo gialloverde è durato poco più di 14 mesi, non senza divergenze tra gli stakeholder, i verdi leghisti e i gialli pentastellati. È sopravvissuto al dibattito sulla Tav, in un primo momento, a quello sulle autonomie, allo scandalo Moscopoli, al caso Siri e diverse altre piccole frizioni che tendevano l’atmosfera di Palazzo Chigi. Alle porte di Ferragosto, però, Matteo Salvini ha staccato la spina, ha chiesto nuove elezioni, si è candidato premier e ha annunciato di volere “pieni poteri” per creare un governo forte, un esecutivo che lavori e non un “governo del no”. Dall’altra parte, i Cinque Stelle rivendicano gli stessi desideri. Il premier Conte ha detto che la sua squadra lavorava eccome, non era certo in spiaggia (con un pungente riferimento al Beach Tour del suo Ministro degli Interni). Di Maio ha detto che il governo era forte e solido, prima che Salvini mandasse tutto a carte quarant’otto. È saltato il banco del governo, e ora bisogna mescolare le tessere e ricominciare.
Non sembra esserci più spazio per una coincidenza di interessi e obiettivi tra la Lega e il Movimento, nessun “contratto di governo” che li tenga allo stesso tavolo. Matteo Salvini vuole tornare al voto, ma sembra essere da solo. I Cinque Stelle non vogliono dargliela vinta e lo scenario elettorale spaventa anche le opposizioni. Una vittoria schiacciante di Salvini sembra quasi scontata, perché nelle sfide della campagna elettorale il Capitano ci sa fare. Il PD vuole evitare le urne, così come il Movimento 5 Stelle. C’è però qui un problema di coerenza, che negli ultimi mesi è venuta a mancare non poche volte. I Cinque Stelle sono stati forse i primi, dall’avvento della Terza Repubblica, a essere accusati di incoerenza, dopo che hanno accettato di allearsi con la Lega per governare. Sono passati dal “Mai con la Lega” al governare proprio con quel partito contro cui avevano fatto una campagna mediatica tanto inferocita. Una mossa che da alcuni è stata vista come un tradimento dei valori fondanti dei Cinque Stelle, ma che a conti fatti era l’unico modo di andare al governo, dopo la chiusura completa del Partito Democratico. L’idea di governare senza alleanze è piuttosto illusoria in Italia, con un sistema elettorale proporzionale che rende molto difficile per un partito ottenere da solo la maggioranza assoluta in parlamento. Allearsi prima o dopo le elezioni è praticamente l’unico modo per formare un esecutivo di maggioranza, ma non tutti gli elettori hanno perdonato la sterzata.
Una critica di incoerenza è stata mossa anche contro Matteo Salvini, che dopo più di vent’anni di “Prima il Nord” ha costruito una reputazione politica nazionale sul “Prima gli italiani”, tutti, anche quelli che prima puzzavano e non lavoravano. Così è riuscito a occupare i palazzi della “Roma ladrona”, per completare la missione di ridare dignità all’Italia in Europa dopo un ventennio di “Basta euro”. Nonostante la palese incoerenza e il cambio di rotta, la nazionalizzazione del partito del Nord era un processo necessario, politicamente logico e vincente, che ha aperto le porte al successo vertiginoso della Lega nei sondaggi. L’incoerenza della Lega è stata perdonata, come sono stati perdonati gli insulti verso i meridionali. Il partito di Matteo Salvini ha più che raddoppiato i consensi. Non è forse questo un motivo più che sufficiente per tradire qualche vecchio ideale?
Dai pop corn all’apertura, una nuova faglia nella famiglia Dem.
“Ora tocca a loro e pop-corn per tutti!”, diceva Matteo Renzi gongolando al prevedibile fallimento del governo gialloverde. All’epoca non c’era spazio per un asse PD-5S, ma adesso la situazione è ben diversa. Allora la Lega era al 17%, oggi secondo alcuni sfiora il 40%. Adesso quindi è Partito Democratico a cambiare rotta, perché in questo scenario particolare l’incoerenza è il male minore. Si vocifera nelle ultime ore che i Dem sarebbero disposti ad aprire a Grillo e al Movimento pur di non tornare alle urne e lasciare il Paese nelle mani di Salvini. Chiaramente per Matteo Salvini “l’inciucio Renzi-Grillo-Boschi-Fico” è una pazzia, una strategia disperata per “salvare la poltrona”, ma se le opposizioni e la fetta gialla del governo dovessero decidere di votare la fiducia all’esecutivo Conte toglierebbero al leader della Lega la possibilità di stravincere il banco elettorale e “capitalizzare il consenso”.
A spiegare le ragioni del cambio di rotta è l’altro Matteo, quello che fa Renzi di cognome e che poco più di un anno fa aveva chiuso tutte le porte a qualsiasi tipo di collaborazione con i Cinque Stelle. “Ho molti motivi di risentimento personale contro chi in questi mesi mi ha attaccato e insultato, a cominciare dai Cinque Stelle. Ma la politica si fa cercando il bene comune, non inseguendo le ripicche personali. E l’Italia viene prima delle correnti di partito. In Parlamento ciascuno di noi dovrà votare: io sono convinto che ci sia una maggioranza per un Governo Istituzionale che salvi l’Italia. Chi dirà NO, si assumerà la responsabilità davanti al Paese di consegnare alla destra estremista il futuro dei nostri figli”, scrive su Facebook l’ex premier sintetizzando una sua intervista al Tg5.
Diametralmente opposta, come spesso succede in casa PD è la posizione di Zingaretti, che resta il Segretario del PD, e di Carlo Calenda. I due non hanno affatto paura del voto e vogliono impostare la proposta elettorale su lavoro, scuola e sanità per battere Salvini. Se si andasse al voto oggi, però, ai Dem servirebbe di più. I sondaggi danno alla Lega il doppio dei consensi rispetto al PD, con il M5S ancora più indietro. Sono due anni che Salvini non ha mai smesso di fare campagna elettorale e di guadagnarsi il favore degli elettori, mentre nei passati 24 mesi il Partito Democratico non ha fatto altro che cercare di risolvere le divergenze interne, che sembrano però ostacoli invalicabili a causa delle voci discordanti al suo interno, tutte abbastanza forti da spaccare il partito. Se il governo cade, tutti i nodi vengono al pettine, e probabilmente il PD non saprà affrontare la sfida contro la Lega, perchè troppo impegnato da quella con se stesso. Negare la fiducia al governo Conte, dall’altra parte, sarebbe una scelta coerente, dopo mesi passati a criticare l’esecutivo gialloverde.
In fondo, quello della coerenza è solo un mito. La coerenza in politica, se si esclude l’attaccamento a certi valori fondanti, diventa controproducente. Governare significa trovare un delicato compromesso tra i diversi gruppi di interesse del paese, creare un equilibrio tra le leggi nazionali, internazionali, i trattati, le esigenze economiche e finanziarie, i bisogni della popolazione, il buon senso, i valori personali e del partito, le pressioni esterne e interne. Un lavoro non certo semplice, e nemmeno facile da comprendere. Non è come un campo di domino, dove A chiama A e B chiama B. Nella politica A chiamerebbe A, se non fosse per B, considerando C, nonostante D, dopo averne parlato con E, e così via fino alla zeta, in un intricato alfabeto di pesi e misure. L’errore del PD (o dei Renziani del PD) non è quello di aprire ai 5S e quindi peccare di incoerenza. L’errore politico, come lo è stato quello del Movimento, è stato dire mai. “Mai con Salvini”, “Mai con i grillini”, sono vincoli inutili e insostenibili, perché il panorama politico cambia e si trasforma. Ci sono cose peggiori dell’incoerenza, come per esempio il successo elettorale di una forza distruttiva, con ambigui contatti con la Russia, che diserta gli impegni in Europa perché i problemi sono una moneta elettorale di valore solo se non vengono risolti, che fa campagna elettorale sulla pelle dei deboli e che usa la rabbia e la paura come motore per il suo successo. Di fronte alla disfatta che aspetta il PD alle urne, è comprensibile che non si voglia andare a nuove elezioni. Di fronte alla schiacciante vittoria di Salvini e di tutto ciò che ne conseguirebbe, è auspicabile che si cerchi di evitare il voto. Zingaretti e Calenda non lo temono, il voto, non hanno paura. Ma forse dovrebbero.
Di A.C.